Culture dominanti e pregiudizio eurocentrico; significato, processi storici ed economici.

Di Alberto Buttaglieri

Di che parliamo quando facciamo riferimento alla cultura di una persona?
Definiamo la cultura.
La riposta più diffusa e spontanea identifica la cultura con il livello di istruzione, l’insieme di conoscenze e competenze acquisite nel corso della vita. Ci riferiamo dunque ad un vissuto che ha potuto articolarsi attraverso percorsi personali variabili, ma comunque riconducibili ad ambiti precisi: ognuno di noi insomma ha un bagaglio di esperienze accumulato nel tempo che varia secondo il sesso, le scuole frequentate, i giornali abitualmente letti, la radio e la tv preferite, le proprie convinzioni politiche e religiose, sulla base delle nostre attitudini ed inclinazioni e nell’ambito delle possibili opportunità offerte dal mondo in cui viviamo.
La cultura è oggi percepita soprattutto come alfabetizzazione letteraria, ovvero padronanza delle tecniche di scrittura.
Basta riflettere un momento perché ci si renda conto che anche un analfabeta ha una sua cultura: anche se non può comunicare per iscritto, non per questo è privo di conoscenze ed esperienze che gli consentono di imparare, di comunicare…
Non c’è dubbio che un conto è essere analfabeta oggi in una ricca metropoli dell’Occidente, altro in un villaggio rurale il secolo scorso.

Perché ai giorni nostri si identifica come culturale solo l’esperienza acquisita e comunicabile attraverso una lingua scritta a scapito di ogni altra forma di comunicazione?
È sempre stato così?
È sempre così in tutti gli angoli della terra?
Quando e come nasce questa distinzione e perché operiamo una valutazione che privilegia la cultura scritta?
Le modalità di conservazione e trasmissione dell’esperienza determinano la distinzione tra culture orali e scritte.
Nelle prime tutto si apprende a memoria; è necessario dunque sviluppare tecniche ed accorgimenti particolari di memorizzazione. Conseguentemente la comunicazione è cadenzata, ritmata o accompagnata dalla musica, qualunque sia l’argomento. In Occidente la tradizione per la quale anche gli argomenti scientifici vengono espressi in rima è talmente tenace che passa dalle culture orali, illetterate, a quelle letterarie e attraversa tutta la civiltà greco-romana fino al Rinascimento.
Nelle seconde, grazie all’invenzione della scrittura, cioè alla trasposizione del suono in immagine, il canale principale di comunicazione non è più l’orecchio ma l’occhio: il sistema convenzionale di rappresentazione dell’esperienza trasforma la parola parlata in parola scritta e la memoria si esteriorizza, si materializza e si espande nel messaggio depositato su pietra, argilla, papiro, carta.
L’uomo potenzia le sue capacità di conservazione, e quindi di analisi e selezione dell’esperienza, e il suo bagaglio culturale si arricchisce, si qualifica e si specializza. Quando, con l’invenzione della stampa, assistiamo alla meccanizzazione delle tecniche di scrittura, sparisce la figura dell’amanuense e si afferma quella del tipografo: il rarissimo e costosissimo manoscritto lascia il posto al sempre più pratico ed economico libro.
La cultura scritta è quantitativamente e qualitativamente più efficace di quella orale e garantisce una eccezionale durata della conservazione dei dati, un loro trattamento sistematico ed una diffusione maggiore. Tale cultura risulta alla fine dominante: sta alla base della comunicazione sociale e viene implicitamente riconosciuta come punto di riferimento per ogni tipo di valutazione.
In Occidente, battuta la piaga dell’analfabetismo, a partire dalla seconda metà del 900, chi sa leggere e scrivere, non è più uno specialista, detentore di un potere elitario, ma un uomo comune. Ormai, pur considerando la cultura indissolubilmente e prevalentemente collegata all’alfabetizzazione, questo semplice dato, isolato, non garantisce più il riconoscimento di una particolare considerazione sociale.
L’invenzione della scrittura continua a registrare un’evoluzione senza sosta. Lungo questo percorso, sono più volte cambiate sia le tecniche che i codici di comunicazione, alcune lingue sono morte e altre ne sono nate.
A partire dal 600, a seguito del progressi registrati dall’opera di ricerca di Galileo Galilei, è possibile distinguere tra cultura umanistica e scientifica: la prima si avvale prevalentemente di un linguaggio letterario, la seconda di quello matematico.
La scienza non descrive più la natura e i suoi fenomeni con le parole, ma attraverso delle formule matematiche elaborate sulla base di esperienze dirette. La ricerca si libera del condizionamento rappresentato dalla semplicistica identificazione cultura letteraria – conoscenza, per recuperare il valore e la libertà dell’esperienza diretta della natura ed esprimerla attraverso un codice più preciso, più efficace nella descrizione qualitativa e quantitativa dei fenomeni: quello sperimentale-matematico.
Assistiamo ad una progressiva e netta distinzione tra cultura umanistica e cultura scientifica, che arriva ai giorni nostri ed allarga il nuovo metodo di indagine dalla conoscenza del mondo naturale a quello delle scienze umane.
Dato il peso che la tecnologia e la scienza hanno sulle nostre capacità di conoscenza, di comunicazione e sulla nostra quotidianità, è evidente che la cultura umanistica sta perdendo rilievo rispetto a quella tecnologico-scientifica.
L’avvento dell’informatica richiede una nuova esigenza di alfabetizzazione dalla quale scaturirà una rinnovata percezione culturale. E non solo in relazione alle dinamiche della comunicazione, ma soprattutto rispetto all’efficacia e all’accelerazione dei processi di ricerca, potenziati dalla maggiore efficacia dei sistemi di elaborazione dei dati e delle tecniche di simulazione.
All’inizio del nuovo millennio, nonostante la cultura percepita come dominante sia quella letteraria, è quella scientifica a determinare la nostra vita personale e collettiva. Inoltre, nell’immediato futuro l’alfabetizzazione informatica risulterà decisiva per la sopravvivenza della cultura letteraria.
Il dato allarmante è che nell’utilizzo di sistemi informatici, attualmente il nostro paese si colloca al venticinquesimo posto nel mondo!

Soltanto la cultura è conoscenza?
Generalmente viene percepito come cultura il bagaglio di esperienze accumulato e trasmissibile attraverso la parola scritta, ma tale patrimonio può essere acquisito anche senza saper leggere e scrivere, cioè da illetterati o in società illetterate.
Il dibattito sulla definizione di cultura è ampio e contraddittorio; se la cultura è l’identità dell’individuo e di un popolo evidentemente dobbiamo prendere in considerazione il numero più ampio possibile di elementi che lo identificano, facendo riferimento non solo agli aspetti cognitivi ma anche a quelli affettivi ed emozionali.
Infatti l’uomo affida l’acquisizione e la rappresentazione dell’esperienza non solo alla scrittura, ma ad un ventaglio molto più ampio e variabile di espressioni: musica, danza, arti figurative. La sua visione del mondo è complessa, non è mai di tipo esclusivamente emotivo o cognitivo e ciò che la determina non è solo la conoscenza ma, ad esempio, la volontà: le sue motivazioni non sono sempre lucide e meditate, razionali e riflessive, talvolta prevalgono quelle confuse ed irrazionali, altre quelle istintive o inconsce… Egli vive e gestisce le sue emozioni in rapporto alle circostanze e ai contesti.
Se affermiamo che la cultura delle persone e dei popoli coincide con il loro modo di vivere, abbiamo fatto un passo avanti e riconosciuto implicitamente che la diversità costituisce la connotazione peculiare di ogni cultura.

Come si realizza questa diversità e perché?
Esistono dei percorsi obbligati attraverso i quali si realizzano i processi di socializzazione e si costituisce il tessuto sociale.
Percorsi che chiameremo valenze, facendo riferimento alle caratteristiche costitutive (gli aspetti strutturali) che caratterizzano l’organizzazione sociale e che, grazie alla loro complessa diversità, costituiscono le identità individuali e collettive.
Soggetto centrale di queste dinamiche è l’individuo: un identità psicosomatica che nasce, vive e muore in stretta interazione con l’ambiente naturale.

La valenza economica
Per garantire l’esercizio delle sue funzioni, l’uomo o modifica l’ambiente in cui vive o vi si adegua: se fa freddo, o accende il fuoco o si copre (probabilmente entrambe le cose). In ogni caso le attività intraprese per realizzare questo equilibrio devono considerarsi lavoro e comportano un impiego di energie minore dei vantaggi dell’adattamento. L’ambiente rappresenta il dato determinante di questo rapporto, con una maggiore o minore incisività dovuta allo sviluppo della tecnologia: ad esempio, un villaggio collocato su una costiera aspra e rocciosa vivrà prevalentemente di pesca, un insediamento di campagna di agricoltura, ecc. Insomma la vocazione economica degli insediamenti umani dipende dalle risorse offerte dall’ambiente e comporta diverse forme di organizzazione sociale. La vita del pescatore è diversa da quella del contadino, da quella del pastore o del commerciante.
La socializzazione del lavoro avviene sempre in un’ottica di ottimizzazione delle risorse, sullo sfondo di uno scenario dove gli attori sono soggetti economici, in quanto consumatori e produttori. Si può affermare che il ciclo vitale di ogni uomo coincida con una parabola economica che passa da una fase di prevalente consumo, ad una di tendenziale equilibrio consumo-produzione, per concludersi con la diminuzione progressiva delle capacità produttive.
Siamo sempre tutti consumatori, in misura diversa nelle differenti età della nostra vita, ma non sempre e tutti produttori.
Una delle valenze fondamentali del rapporto sociale è quella economica, che consente di soddisfare i bisogni (primari innanzitutto) che ci consentono di vivere. A questa valenza corrisponde un insieme di esperienze, competenze, valori , emozioni indicate come “cultura del lavoro” o cultura economica.

La valenza giuridico-politica
L’organizzazione del lavoro, cioè dei meccanismi che consentono di soddisfare i bisogni , comporta un’armonizzazione delle azioni e delle volontà di tutti i membri della società, esige la definizione e l’affermazione di norme di comportamento che distribuiscono il potere tra tutti i membri del tessuto sociale. Questa organizzazione è una variabile dipendente dal rapporto che la società ha con l’ambiente ma non solo: la norma non regola esclusivamente le attività produttive ma tutti gli aspetti della vita e si ispira ad un sistema tendenzialmente coerente di valori, al quale corrisponde l’identità giuridica e politica della collettività e la nostra stessa libertà personale.
La storia del ‘900 conosce società di tipo comunista, fascista, liberale democratico, profondamente diverse tra loro sotto il profilo politico, economico e culturale, ma tutte coerenti con le scelte valoriali alla base della loro concezione del mondo, dell’individuo, della vita.
Una delle strutture portanti del rapporto sociale è, in ogni tempo e in ogni luogo, quella di ordine giuridico ed economico, cioè quella che determina un sistema normativo e lo rende operante sulla base della cultura politico-giuridica prevalente. La cultura politica corrisponde ad un’altra delle valenze costitutive della società.

La valenza emotiva
Nei rapporti con il prossimo viviamo una intensa vita affettiva attraverso tutta la gamma dei sentimenti che possono colorare la nostra quotidianità: si va dall’indifferenza all’attenzione, dalla simpatia all’antipatia, dall’amore all’odio. Ogni momento della relazione con l’ambiente, sia umano che naturale, coincide con una condizione emotiva. Le emozioni variano secondo il contesto sociale e culturale.
Sentimenti come la gelosia, l’odio, l’amore, il coraggio assumono connotazioni variabili nelle diverse epoche e presso popoli diversi e persino all’interno di uno stesso gruppo, pur proponendosi come universali. Eppure rappresentano un elemento costituente della socializzazione e della struttura sociale. Esiste dunque, in relazione a questi aspetti del rapporto interpersonale e sociale, una cultura specifica che si avvale dei diversi apporti offerti dalle scienze umane afferenti a queste problematiche.

La valenza culturale
La valenza culturale è tradizionalmente quella della quale sembriamo più consapevoli e quella più complessa e dinamica. Correlata alle funzioni superiori della sfera cognitiva, esprime la consapevolezza e la riflessione sulla connotazione delle altre valenze creando i presupposti, attraverso l’esercizio critico, per il loro continuo cambiamento.
È principalmente capacità di comunicazione, ma soprattutto di osservazione, analisi, sintesi, ricerca e progettazione. Si traduce dunque in filosofia, scienza, religione, arte. Riflette la complessità e la realtà delle altre valenze ed è in grado di condizionarle pur essendone determinata.
La cultura è l’identità complessa della società nella sua vitalità, non è una connotazione statica e omogenea anzi, proprio perché coincidente con la struttura sociale, risulta sempre un dato estremamente variabile sia nel tempo che nello spazio.

Tutte le culture sono uguali?
Evidentemente no. Tutte le valenze che determinano l’identità sociale e la loro interazione sono estremamente dinamiche. L’uomo può essere definito un animale sociale a socializzazione variabile. La sua grande capacità di adattamento all’ambiente si realizza grazie alla flessibilità della sua organizzazione sociale, che varia nel tempo e nello spazio, diversamente e in misura maggiore, di quanto si verifica presso le altre società animali. L’uomo è dunque un animale culturale perché la sua natura gli consente di organizzare la propria vita in modo flessibile e differenziato, sulla base dei condizionamenti ambientali e sulla base della propria cultura, in un rapporto fortemente attivo con l’habitat.
Si parla di civiltà agricole, industriali, facendo riferimento alle attività produttive, di civiltà urbane e rurali in riferimento agli insediamenti. In ogni caso esaminiamo i diversi tipi di società a partire da scelte ed interessi precisi: nel mondo contemporaneo, caratterizzato da un forte dinamismo e da un gravoso impegno per l’affermazione dei diritti umani ci preme individuare le dinamiche del cambiamento e gli spazi di libertà concessi agli individui.

Si può distinguere tra società statiche e dinamiche ed individuare le caratteristiche delle culture corrispondenti.
Una società si definisce statica quando l’obiettivo dell’autoconservazione viene perseguito attraverso un’organizzazione che blocca gli assetti politici ed economici e l’identità culturale; sul piano psicologico risulta diffidente, o addirittura ostile, ad ogni prospettiva di cambiamento, di qui ansiosa e tendenzialmente autoritaria. Tutto questo ferma o rallenta i processi innovativi, peraltro spesso non consentiti dall’inadeguatezza e precarietà delle tecnologie di acquisizione, conservazione e comunicazione delle conoscenze.
Si tratta di una cultura dagli orizzonti limitati, ripetitiva e conformista, che si perpetua al costo della mortificazione di ogni capacità critica e progettuale ed ha come conseguenza la limitazione delle libertà individuali e collettive; preferisce volgersi al passato piuttosto che progettare il futuro.
Una società è dinamica quando l’obiettivo di autoconservazione viene perseguito attraverso una organizzazione flessibile, aperta e predisposta al flusso continuo di saperi, al ricambio dei ruoli del potere dominante e delle istituzioni. L’atteggiamento è ottimista, attivo, progettuale e presuppone libertà e responsabilità diffuse, con una forte propensione al futuro piuttosto che al passato, alla ricerca piuttosto che alla conservazione, all’originalità piuttosto che al conformismo.
Le caratteristiche statiche o dinamiche di un contesto sociale , non si presentano omogeneamente in nessuna società, sia essa dinamica o statica. Al di là del modello di organizzazione non è possibile né una conservazione totale né una evoluzione costante, continua e omogenea. Tutto questo spiega, nella storia della cultura, la diversa influenza assunta in periodi successivi dagli stessi popoli, o il valore rappresentato dalle diverse forme espressive nello stesso periodo e nello stesso contesto culturale.
Ne sono esempi il diverso valore della produzione letteraria e figurativa nell’Italia del 600 o la sopravvivenza di sistemi politici feudali all’interno di società industriali avanzate.

Rispetto al ruolo dell’individuo esistono società inclusive ed esclusive.
Le condizioni dell’individuo sono determinate dal contesto sociale di appartenenza e, in particolare, dal ceto sociale della famiglia di origine. Questi condizionamenti variano secondo diversi fattori, tra cui l’età è quello relativamente più omogeneo (nelle varie società le condizioni del bambino sono diverse da quelle dell’adolescente, del giovane, dell’uomo maturo o dell’anziano). Anche questo dato dipende dalle tecniche di memorizzazione e trasmissione dei saperi, dal tipo di attività economica prevalente, dalla diffusione dell’istruzione e del potere. Altro elemento di particolare rilievo è essere uomo o donna, appartenere ad una corporazione piuttosto che ad un’altra, essere originari del posto o immigrati…
Vengono definite società inclusive quelle in cui è possibile essere inseriti a parità di condizioni, sulla base della propria identità individuale, famigliare o sociale godendo di pari opportunità.
Sono invece definite esclusive quelle in cui il livello di socializzazione non è determinato dagli individui in quanto tali, ma dalla loro appartenenza ad un genere o una famiglia, sulla base di una discriminazione diversamente espressa e legittimata.
In relazione a queste due società si configurano culture inclusive ed esclusive nella misura in cui legittimano e praticano tali processi di socializzazione.
Le società esclusive sono generalmente statiche, sicuramente in riferimento all’assetto politico, mentre quelle inclusive consentono una maggiore dinamicità anche a titolo individuale, almeno teoricamente, nell’ambito di tutte le valenze sociali.
Mentre le prime tendono ad essere culturalmente omologate ed economicamente differenziate, con standard di vita mediamente bassi, nelle seconde, al contrario, alla grande mobilità sociale, dovuta alla libertà e alla assunzione di responsabilità individuali, corrisponde un tenore di vita più elevato ed un identità culturale più ricca ed articolata.

L’uomo nel corso della sua storia ha dato il via a diversi modelli di organizzazione sociale che hanno assunto connotazione diversa rispetto al ruolo dell’individuo e ai fini comuni perseguiti. Ciò ha determinato e determina la grande varietà delle culture, la loro durata nel tempo, la loro diffusione e capacità di adattamento e sopravvivenza in contesti storici ed ambientali caratterizzati, in conseguenza dell’evoluzione tecnologica, da una sempre maggiore interazione su uno scenario divenuto planetario.

Dal pregiudizio egocentrico a quello eurocentrico
L’uomo cui faceva riferimento Protagora era misura di tutte le cose, centro della polis; la monade di Leibnz, che rifletteva nel suo microcosmo individuale l’intero universo, era sostanzialmente l’uomo colto dell’Europa rinascimentale: per entrambi l’uomo era al centro dell’universo, così come la terra era il centro del sistema solare secondo il sistema tolemaico, o l’uomo creato da dio e messo nel paradiso terrestre, secondo la concezione giudaico cristiana.
Tutti erano vittime illustri di un pregiudizio egocentrico che ignora la vastità e la complessità del reale e dell’uomo, sia individualmente che socialmente.
Oggi l’orizzonte delle conoscenze si è talmente ampliato che non è più possibile pensare di essere al centro dell’universo: questa illusione ormai non può che tramutarsi nella consapevolezza della relatività del nostro punto di osservazione. È possibile guardare l’orizzonte da di versi punti, ma non pretendere che quel punto di vista sia il centro del mondo e il migliore possibile. Se non si può prescindere dalla percezione del mondo determinata dal prorpio punto di osservazione, non si può neanche giustificare la presunzione di possedere una visione completa e privilegiata.
L’attaccamento ad atteggiamenti di tipo egocentrico o etnocentrico (talvolta una fedeltà quasi ossessiva alla propria identità personale o collettiva) è tipico della cultura statica. Certo, un qualunque mutamento di prospettiva suscita, in un primo momento, disagio e perplessità perché disturba la nostra pigrizia mentale e ci costringe, se non a ridisegnare, a riconsiderare la mappa del nostro mondo, il sistema di valori e di correlazioni sui quali abbiamo impostato la nostra vita. Ma non è neanche possibile pensare di relazionarci a realtà diverse dalla nostra e di comprenderle restando chiusi nel nostro sistema di riferimento. Inoltre presupporre di essere portatori di una cultura superiore, che non ha nulla da imparare e che può continuare a crescere isolata nel villaggio globale della comunicazione, è una forma di autoinibizione alla conoscenza.
Quest’atteggiamento costituisce un esempio di pregiudizio. Questo rappresenta una sorta di scorciatoia, nella direzione sbagliata, di un percorso di conoscenza che non si ha voglia di fare per diversi motivi. Il primo è che, poiché la conoscenza dà sicurezza e questa allontana l’ansia e assicura il piacere della serenità, si preferisce una falsità rassicurante piuttosto che una verità sconvolgente. Per questo, salvo circostanze sia a titolo individuale che collettivo, basti pensare agli ostacoli incontrati in ogni epoca dal progresso scientifico.
I pregiudizi sono più diffusi nelle società statiche ed autoritarie, restie – se non apertamente ostili – ad ogni forma di cambiamento per l’incapacità ed il rifiuto di governarlo. Questo tipo di società evita le occasioni di confronto, aliena la responsabilità e la competenza degli individui, per affidarle a classi privilegiate che pongono la validità delle loro asserzioni al riparo e al di sopra di ogni possibile verifica.
Infatti le forme più diffuse e ostinate di pregiudizio sono radicate in quelle coscienze soffocate e distorte dalla manipolazione culturale operata dai regimi totalitari e dai fondamentalismi religiosi. In entrambi i casi c’è una centralità indiscussa del potere ed una marginalità assoluta dell’individuo; in entrambe le situazioni ci sono verità e culture dominanti che non possono essere messe in discussioni, vuoi per l’apparato repressivo poliziesco vuoi per la trascendalità dei valori affermati. L’individuo, nel timore della repressione, non può mettere in discussione le verità e i modelli imposti dal dittatore, detentore di un potere assoluto.
Stessovragionamento per le varie forme di superstizione o di mistificazione religiosa e culturale, che coincidono con l’inibizione dei processi logico-analitici e riabilitano e nobilitano il pregiudizio qualificandolo come fede.

Culture altre e culture dominanti
Qual è la condizione dell’immigrato che, rimosso fisicamente dalla centralità del proprio mondo, si ritrova non più al centro di un sistema omogeneo e condiviso (probabilmente ritenuto organico e superiore sulla base del suo pregiudizio etnocentrico) ma in un contesto nuovo e magari provenendo da società statiche ed esclusive?
Restare aggrappato a tale pregiudizio è l’unico modo per mantenere un’identità ed un equilibrio di fronte ai cambiamenti imposti dalla sua nuova condizione oppure accettare passivamente nuovi usi, costumi e valori è il prezzo minore da pagare per una migliore qualità della vita?
Quali culture possono essere definite dominanti e a quali condizioni sono tali, attraverso quali percorsi si affermano e si diffondono? La risposta a queste domande è correlata alla complessità delle dinamiche sociali, alla loro storia, alla loro struttura. Ogni cultura si caratterizza per il diverso potere socializzante delle valenze sulle quali si costituisce e si colloca in una dimensione temporale e spaziale, all’interno della quale può risultare dominante o prevalente. Una società semplice, con una limitata divisione del lavoro ed un modesto bagaglio culturale, avrà dei modelli normativi, imposti dal ceto dominante, diffusi e rispettati in modo omogeneo. Al contrario, in una società complessa ed articolata (quale può essere quella post-industriale occidentale) la cultura più diffusa spesso non è quella dominante, nel senso che non è necessariamente quella delle classi egemoni. Già nell’antico Egitto esistevano tre tipi di scrittura corrispondenti all’articolazione sociale; lo studio della società dei consumi e dell’industria culturale ha dimostrato che le culture dominanti non sempre coincidono con quelle più diffuse.
Bisogna comunque tener presente che non esistono società completamente omogenee: anche all’interno di uno stesso contesto sociale coesistono diverse sottoculture, diverse condizioni e stili di vita che corrispondono all’articolazione e alla complessità della società considerata.
Per l’immigrato la cultura prevalente diventa dominante, come per chiunque si rechi all’estero. Le possibilità di mantenere integra la sua identità sono molto ridotte e condizionate innanzitutto dalla cultura politica del paese ospitante, così come ridotta è la possibilità di una sua integrazione. Il problema è dato dalla compatibilità tra il suo sistema di valori e quello della collettività ospitante: si tratta di verificare entro quali limiti le parti siano disposte a rimuovere il loro egocentrismo culturale.
Lo stesso vale per le dinamiche culturali che vedono protagonisti interi paesi e società; il nocciolo della questione è quello di individuare le modalità attraverso le quali si realizzano le trasformazioni delle identità culturali. Prendendo in considerazione i meccanismi che determinano l’affermazione delle culture dominanti, occorre focalizzare i procedimenti e le strutture attraverso le quali si afferma il potere culturale. Si tratta di un panorama complesso che si evolve con la storia dell’umanità secondo una linea evolutiva che si intreccia con l’analisi del potere in generale, della sua natura, delle sue cause, della sua gestione, della sua giustificazione o legittimazione. Le dinamiche si connotano per le varie manifestazioni della più violenta ed esplicita brutalità, pura e semplice violenza fisica, per il condizionamento diretto o indiretto di tipo economico, per una più o meno sofisticata manipolazione culturale e psicologica.
La storia economica dell’Occidente insegna come il passaggio dal comune medievale alle multinazionali abbia coinciso con un profondo cambiamento della cultura, che ha investito non solo i modi di produzione ma la stessa identità delle popolazioni, modificando la morale, i costumi, i sistemi politici, il ruolo e la dignità di uomini e donne.
La storia della comunicazione ha consentito di accertare le profonde modificazioni non solo del costume ma anche dell’economia indotte dal telefono, dalla radio ,dalla televisione e dallo sviluppo delle reti telematiche.
La storia delle migrazioni e dell’evoluzione dei mezzi di trasporto ha illuminato i cambiamenti intervenuti nella percezione del mondo dell’uomo moderno: si è passati dalla prospettiva del villaggio rurale a quello globale, dall’interazione circoscritta al clan e alla famiglia, a quella planetaria.
Tutto questo è stato possibile perché le società si costituiscono sulla base di valenze che non si prefigurano rigidamente, ma danno vita ad un rapporto dinamico all’interno del quale ognuna, nel corso del tempo, può assumere maggiore o minore rilievo. Inoltre le dinamiche risultano storicamente talmente variabili e imprevedibili da assumere un carattere vitalistico.

Siamo stati costretti dagli eventi a prendere atto che la nostra cultura è multiculturale e dinamica e che tali sono le nostre radici, pur nell’ambito di identità consolidate nel tempo. Di fronte a questa presa di coscienza i rischi sono molteplici. Il primo è quello di cadere in un pigro relativismo che rischia di compromettere le conquiste non ancora consolidate in tema di diritti civili, sociali ed umani; il secondo quello di accettare una rigida stratificazione culturale corrispondente ad una società statica ed esclusiva; l’ultimo è quello di farci prendere dall’ansia di promuovere in tempi brevi e con qualunque mezzo, una nuova identità planetaria, non corrispondente alla cultura del villaggio globale.